Testo e immagini di Ivano Nesta
Fra i tanti aspetti che suscitano l’interesse dei Rievocatori che si dedicano al medievo, vi è la ricostruzione delle figure di arcieri e balestrieri del sec. XIII. In queste righe sono sintetizzate le informazioni che l’autore è riuscito a raccogliere attingendo a fonti storiche iconografiche, letterarie ed archeologiche.
LE COMPAGNIE DI ARCIERI E BALESTRIERI
Nell’Italia dei comuni le compagnie di arcieri e balestrieri erano tenute in grande considerazione in quelle che erano le azioni belliche. In varie parti d’Italia, come a Pisa nel 1162 o ad Aosta nel 1206, abbiamo notizie sulla costituzione di queste compagnie governate da un capitano che provvedeva all’addestramento con le armi da tratto dei membri. Alle compagnie di tiratori venivano assegnati terreni, al di fuori delle città, dove potevano esercitare la pratica del tiro al bersaglio.
Oltre a difesa e guardia delle cinte murarie, castellane e cittadine, le compagnie di arcieri e balestrieri erano impiegate nelle campagne militari e costituivano il corpo principale degli eserciti comunali. Erano truppe scelte, addestrate, efficienti e ben retribuite, come testimoniato peraltro dalle iconografie del periodo e da alcuni documenti come il “Libro di Montaperti”, codice militare relativo alla omonima battaglia campale del 1260 vinta dai ghibellini senesi contro i guelfi fiorentini. Da tale documento emergono le caratteristiche di questi fanti specializzati, ai quali era imposto di equipaggiarsi per la guerra a proprie spese: oltre ad archi e balestre dovevano munirsi di armi complementari come falcioni o coltellacci, scuri e mazze, adottare cappelli di ferro e cervelliere per la protezione della testa e gambeson o corpetti in cuoio con maniche rinforzate in maglia di ferro per la protezione del busto e delle braccia. Negli eserciti comunali gli arcieri erano più pagati rispetto ai normali fanti ed i balestrieri a loro volta, ricevevano una paga maggiore rispetto agli arcieri, questi tiratori erano però multati o puniti se venivano colti senza l’equipaggiamento richiesto. Le campagne militari erano pianificate con anticipo e pertanto la costruzione di balestre, archi, frecce e corde era demandata a specifiche maestranze, chiamate anche a prestare servizio a seguito degli eserciti. Le compagnie di arcieri e balestrieri in battaglia potevano essere utilizzate per ingaggiare la mischia, ovvero aprire le ostilità infastidendo il nemico con il lancio del saettame, costituire uno sbarramento protettivo dietro il quale la cavalleria poteva rifiatare e riorganizzarsi o essere utilizzate per scompaginare uno schieramento avversario particolarmente solido come un presidio di fanteria pesante. Un umile fante, per mezzo di semplici e relativamente poco costose armi da getto come archi e balestre, poteva uccidere un nobile cavaliere che aveva dedicato la vita ad addestrarsi all’esercizio bellico ed investito un ingente patrimonio per la sua armatura.
ARCIERI
Si ritiene che gli arcieri provenissero generalmente dai villaggi e dai campi, perché la pratica dell’arco necessitava di un continuo addestramento che poteva essere esercitato per mezzo della caccia. Le tipologie di archi e di frecce in uso nel sec. XIII erano molteplici: nei paesi europei bagnati dal Mediterraneo come l’Italia, troviamo una prevalenza di archi orientali compositi per l’influsso e gli scambi derivanti dai paesi orientali, nei paesi del settentrione europeo troviamo una prevalenza di archi realizzati in solo legno a doppia curvatura a sezione piatta oppure dritti a sezione elissoidale, in Inghilterra comincia ad affermarsi l’arco lungo con sezione a lettera D.
In Italia una suddivisone convenzionale sembra venisse operata per definire archi da guerra quelli ricurvi compositi, realizzati assemblando legno, corno e tendine animale che tramite questa tecnica risultavano più efficaci, mentre archi più semplici come quelli realizzati utilizzando particolari stecche di legno di tasso, maggiociondolo, olmo, frassino, nocciolo, sambuco erano perlopiù destinati alla caccia. Le frecce erano costituite da aste di varie essenze lignee come nocciolo, sambuco, betulla e frassino. Nella parte posteriore delle frecce venivano intagliate le cocche per consentire l’alloggiamento nella corda dell’arco e venivano applicate le penne per stabilizzare le traiettorie di tiro. Nella parte anteriore delle frecce venivano applicate le punte forgiate in metallo.
Le punte delle frecce da guerra erano prevalentemente di tipo a quadrella, adatte a sfondare le protezioni metalliche o in cuoio degli avversari, mentre per le frecce da caccia venivano utilizzate punte con estese lame taglienti al fine di provocare nelle prede, estese ferite e copiose perdite di sangue debilitanti. Per gli impennaggi delle frecce venivano usate le grandi penne remiganti dei volatili più facilmente reperibili come anatre ed oche, mentre per le corde degli archi venivano utilizzati canapa e lino incerato. Nel panorama arcieristico italiano del sec. XIII è doveroso fare una menzione particolare per gli arcieri saraceni di Federico II di Svevia, il quale seppe impiegare con successo queste truppe montate a lui fedelissime in alcune battaglie come quella di Cortenuova del 1237, dove la lega dei comuni lombardi venne sbaragliata dall’esercito dell’imperatore. Erano cavalleggeri che usavano l’arco composito orientale ed agivano appiedati a sostegno della fanteria; in Italia tuttavia non prese mai piede, tranne in sporadici casi di mercenari stranieri, un corpo di arcieri a cavallo, contrariamente a quanto si verificò con le popolazioni nomadi orientali come turchi e mongoli, che seppero conquistare grandi imperi praticando il tiro con l’arco a cavallo, secondo la tattica di guerra tradizionale delle genti delle steppe.
Nel sec. XIII l’arco in Italia era comunque largamente diffuso, ma non rivestì quasi mai l’ importanza di arma risolutiva come avvenne in Oriente o come avvenne più tardi nella Guerra dei Cent’anni dove gli Inglesi, con grandi dispiegamenti organizzati di arcieri capaci di generare un lancio continuo e massivo di frecce, ebbero quasi sempre la meglio sulla soverchiante cavalleria francese. In Italia sui campi di battaglia prese sempre più piede la balestra per la sua efficacia e semplicità d’utilizzo, tuttavia l’alto costo della balestra fece sì che l’arco non venisse mai abbandonato completamente fino all’introduzione della armi da fuoco.
BALESTRIERI
L’utilizzo della balestra a differenza dell’arco, comportava un minor addestramento, poiché il meccanismo di sgancio della balestra consentiva di separare lo sforzo per tenere in tensione la corda dell’arco dalla concentrazione necessaria per mettere in mira il bersaglio. Tale caratteristica consentiva un impiego più facile della balestra rispetto all’arco e per tale motivo ne veniva fatto un più largo uso nei campi di battaglia, anche se la velocità di tiro della balestra, a causa delle fasi di caricamento più complesse, era minore rispetto a quella dell’arco. Ai balestrieri si affiancavano in battaglia i “palvesari” che con i loro grandi scudi proteggevano fanti e tiratori. Dietro ogni palvese talvolta si piazzavano due o tre balestrieri, in modo da lasciare ininterrotto il flusso di tiro dalla posizione. Parlando di balestrieri non si può mancare di ricordare i rinomati balestrieri genovesi e pisani, richiesti anche all’estero come mercenari. Fino al sec. XIV erano in uso prevalentemente due tipi di balestre: con arco di solo legno e con arco composito (legno, corno, osso e tendini di animali). Quest’ultimo tipo di arco era il più pregiato, in quanto aumentava l’efficacia e l’affidabilità dell’arma e proprio per questo motivo l’uso di balestre con arco composito costituiva un vanto per i comuni. L’arco era fissato per mezzo di un intreccio di corde al teniere, tramite il quale la balestra veniva imbracciata. La corda dell’arco era composta da fili di canapa intrecciati.
All’ estremità del teniere, davanti e centralmente all’arco, era fissata la staffa, generalmente metallica, che serviva per tenere col piede, la balestra ferma a terra mentre la si caricava esercitando con le mani una trazione sulla corda. Gli altri elementi costituenti la balestra erano: la “noce” e la “manetta”. La noce costituiva il meccanismo di sgancio; era un cilindro, in osso o in metallo, al quale si agganciava la corda tesa; era alloggiata in un apposito incavo del teniere e poteva ruotare su se stessa, attorno ad un perno. Dalla parte opposta a quella dove veniva agganciata la corda, la noce aveva un incavo ove s’incastrava la manetta che era una semplice leva a forma di “Z”, collocata sotto il teniere, utilizzata per bloccare o liberare il movimento rotatorio della noce. Un sistema di sgancio più semplice era quello cosiddetto “a piolo”, meccanismo che appunto tramite un piolo infisso nella manetta liberava, passando da un foro praticato nel teniere, la corda precedentemente assicurata ad un incavo nel teniere e consentiva in tal modo il rilascio del dardo. I dardi lanciati dalle balestre, definiti “verrettoni”, erano corte e tozze frecce che potevano raggiungere, se scagliate da balestre con arco composito, una distanza a parabola anche di 200 metri. Occorre però considerare che mentre la freccia dell’arco, per la sua struttura, risulta ancora efficace a questa distanza, perché nella fase discendente della parabola accumula energia e quindi impatta con forza sul bersaglio, il verrettone, essendo più tozzo, corto e pesante, risulta maggiormente efficace nel tiro teso. Il verrettone era in genere lungo dai 35 ai 40 cm. ed era formato da una cuspide piramidale a base triangolare lunga circa 5-6 cm, collegata ad una gorbia troncoconica cava nella quale veniva fissata l’asta di legno; nella parte posteriore dell’asta era inserita l’impennatura (due o tre penne), talvolta realizzata in pergamena. Un altro tipo di dardo era il “quadrello”, così definito, perché aveva una punta in ferro a base quadrata, mentre il ”bolzone” era un dardo con punta in ferro ottusa.
Agli inizi del sec. XV, furono introdotte le balestre con arco in acciaio, molto più potenti ed affidabili che surclassarono le balestre con arco in legno o composito, anche se la procedura di caricamento divenne ancora più lunga.