Federica Garofalo intervista Andrea Lazzeretti, regista de “L’Ultima Battaglia”
«Un fulmine a ciel sereno». Così Andrea Lazzeretti, toscano purosangue, militante nella fanteria comunale duecentesca fiorentina Il Gonfalone del Bufalo, branca dell’associazione ARES, ha definito la sua partecipazione all’edizione 2014 del Premio Massimo Stipa, nell’ambito della rassegna cinematografica Corto Medievale film festival di Ascoli Piceno, alla quale si è aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura con il film L’Ultima Battaglia.
Un cortometraggio “assolutamente amatoriale”, per sua stessa definizione, e anche Andrea Lazzeretti ama dipingersi più come “film-maker” che come “regista” o “sceneggiatore”.
«Nessun corso né studio specifico nel cinema o nel teatro, nessuna esperienza di sceneggiatura o di montaggio, nessuna competenza in recitazione o interpretazione dei personaggi,» sottolinea. «D’altra parte la mia passione per il cinema era iniziata già da molti anni, forse dieci o quindici, così come quella per la Living History medievale. Con il mio primo cortometraggio del 2005, La Reliquia, ho semplicemente cercato di unire le due passioni ponendomi la sfida di essere, assieme agli amici che mi avrebbero aiutato, il realizzatore in toto di una piccola opera cinematografica.»
Ma cosa significa fare cinema, e del buon cinema, per un giovane regista esordiente?
«Secondo me, ogni mezzo narrativo che si rivolga ad un pubblico, compreso il cinema, deve raccontare una storia, e la storia in questione dovrebbe essere coinvolgente, originale e appassionante per chi la “fruisce”. Contemporaneamente, cerco di non pensare che oggi, ovviamente e necessariamente, il cinema è un business e una grandissima industria, che deve rientrare negli investimenti fatti, pagare le immense squadre che ci lavorano e saturare il mercato in modo sempre più massiccio per surclassare la concorrenza. Per questo fare del buon cinema è sempre più difficile, indipendentemente dal genere o dalle ambientazioni trattate; credo che in fondo l’essenza sia quella di raccontare delle belle storie in modo appassionato, pensando che dovranno essere viste non da portafogli pieni di soldi ma da cuori e menti alla ricerca di emozioni.»
Poi ci racconta la storia del suo cortometraggio L’ultima battaglia, il terzo che ha realizzato: «L’idea di questo film è nata da un primo desiderio di fare una sorta di “biglietto da visita” per il mio gruppo, il “Gonfalone del Bufalo”, che in quel periodo stava nascendo e prendendo corpo. Non volevo, però, creare un video promozionale come tanti, ma, come mi piace fare, raccontare una storia, che avesse come protagonisti alcuni tra i fanti fiorentini del 1260 che facevano parte del Gonfalone del Bufalo. Essendo esistito realmente questo reparto dell’Oste Comunale Fiorentino e avendo davvero partecipato alla battaglia di Montaperti, mi è sembrato automatico inserire l’evento storico come elemento scatenante della storia. Il problema era che in quella battaglia l’esercito fiorentino fu sconfitto clamorosamente, e migliaia di fanti caddero sul campo di battaglia. E se alcuni di questi soldati avessero desiderato tornare a casa con una tale volontà da continuare quel viaggio anche dopo la morte, ma senza esserne consapevoli?»
La piega mistery che la pellicola stava prendendo è stata rafforzata da un ulteriore elemento: «Alcuni dei miei amici del gruppo mi raccontarono di un castello, sperduto in un bosco nel comune di Sovicille, vicino Siena, talmente lontano dalla civiltà e sconosciuto da essere noto come “Castiglion che Dio sol sa”. Andammo a fare un sopralluogo sul posto, bellissimo e dal fascino misterioso e antico, un connubio perfetto tra storia e natura, restaurato negli anni passati ma oramai abbandonato a se stesso.»
E, in effetti, quel castello dall’aspetto abbandonato sembra essere la scenografia ideale per una pellicola sospesa tra storico e surreale, in cui la sceneggiatura, l’attenzione ai dettagli ricostruttivi e la buona volontà del regista e degli interpreti controbilanciano abbastanza bene la scarsità dei mezzi tecnici e tecnologici e gli ovvi limiti di un cast composto da non professionisti; particolare è il finale “a sorpresa”, che ricorda molto quello di famosi thriller paranormali come Il Sesto Senso di Manoj Night Shyamalan (1999) o, ancor più calzante, The Others di Alejandro Amenàbar (2001).
A proposito di quest’ultimo punto, il regista osserva: «Mi sono reso conto quasi da subito che la storia ricalcava palesemente queste due note pellicole, ma visto che quel che avevo scritto mi piaceva così com’era, e soprattutto visto che il cerchio del racconto si chiudeva (cosa non così scontata), ho scelto di non curarmene e di lasciare tutto come stava.»
Ora, quali sono i suoi progetti futuri?
«Il ricevere questo premio, oltre a riempirmi di felicità e di orgoglio e aver dato un senso a quel che ho fatto e agli sforzi realizzativi affrontati da me e da tutti gli amici che mi hanno aiutato per portare a termine il progetto, mi ha anche dato la scintilla per poter riaccendere una fiamma che si stava lentamente spegnendo. Gli amici mi hanno sollecitato tutti e in gran coro, soprattutto sapendo che ho una sceneggiatura nel cassetto da qualche anno e che ancora non ho trovato il modo di metterla in scena. Va detto che questa volta si tratterebbe di un progetto molto più impegnativo, per il quale avrei bisogno di infrastrutture ben più importanti di quelle avute finora, di allestimenti di ambienti e di molte persone a darmi manforte, oltre ovviamente ad una grande quantità di tempo che negli ultimi anni scarseggia sempre di più… Ma chissà che il 2015 non porti un vento di cambiamento.»
E anche noi teniamo gli occhi fissi sulla banderuola, aspettando cosa questo vento di cambiamento potrebbe portarci.